Intorno a Verso l’annchilirsi del disegno… *
La poesia di
Massimo Dagnino non è certo una poesia della dispersione, ma piuttosto della
dissolvenza (con una dissolvenza incrociata, forse prodotta dal sogno, si apre
il suo libro) e dell’asincro (con una tensione irrisolta tra voce e volto il
libro si chiude): duplice condizione preliminare alla dispersione definitiva.
Trattenere quest’ultima, sul filo del suo realizzarsi annichilente, è forse una
delle vocazioni segrete della poesia che quindi, alla luce di questa
ispirazione, si confronta col dominio della tecnica e con al sua potenza
disgregatrice.
Verso l’annichilirsi
del disegno…è una deriva, forse ineluttabile, ma a suo modo contrastata;
nulla a che vedere con uno stato delle cose o con una tendenza deliberata; una
deriva in cui resta e resiste il corpo, il corpo come resto. O come esigenza.
In una famosa a Milena, Kafka riflette sulla tecnologia come
caratterizzata da un duplice lignaggio: quello dei mezzi di trasporto e quello
dei mezzi di comunicazione. I primi, tagliando lo spazio, trasportano corpi:
così facendo modulano le immagini in successioni di piani sequenza o fissandole
in istantanee discontinue. I mezzi di comunicazione, da parte loro, evocano
fantasmi, annullando la corporeità e costituendo così un vero e proprio
lignaggio diabolico (alla lettera, di
sdoppiamento e calunnia; dia-ballo,
disunisco e quindi calunnio). Il cinema trova così nella prima serie
tecnologica la propria collocazione: senza avere alcunché da spartire con
l’ideologia comunicativa, è un mezzo di trasporto, come un nuovo treno o,
volendo, un’auto lanciata in autostrada con i fari accesi. Immagine della
monade che esprime il mondo intero del suo punto di vista, pur senza avere né
porte né finestre. Il regno diabolico e fantasmatico della tecnologia
comunicativa appartiene piuttosto alla televisione e, ancor di più, alla
desomatizzazione prodotta dalle web-cam.
È perciò uno sguardo d’ispirazione cinematografica a
trattenere la poesia di Massimo Dagnino in prossimità dei corpi, sul filo
dell’esigenza di averne uno e di salvarlo dalla voragine ipermediatica in cui
ancora si cerca di “abbinare una voce al volto”. Donde il riferimento a David
Lynch, a un cinema fatto della lotta tra corpi e fantasmi: corpi dilaniati,
violentati, erotizzati, uccisi, mutilati, storpi, deformi; corpi di un amore
che è violenza sadica, di una masturbazione che è preludio al suicidio, di un eros che è soprattutto thanatos. Ma questa violenza è incisa
sul corpo dalla produzione fantasmatica che, se trattiene il corpo, è solo per
accanirsi ancora di più su di esso: tramite uno sdoppiamento che lo riproduce
in quanto fantasma, in quanto corpo divenuto ormai diabolico, separato da se stesso e della propria voce (trasmessa
in playback e fuori sincro in un teatro
da incubo), oppure tramite la proliferazione d’immagini pornografiche,
esposizione infinitamente ripetuta del gesto vitale in un ambito di morte: una
donna posseduta da tergo proiettata sulla parete di una stanza in cui si
consuma un omicidio.
Forse, infine, saranno i fantasmi ad averla vinta,
calunniando definitivamente le nostre vite, vuoi con la riduzione del desiderio
a gioco mercificato della seduzione permanente, vuoi con il mercato della paura
e della coattivamente ripetuta ossessione emergenziale, vuoi con ogni altro
genere di diavoleria. Ma finché resterà almeno un corpo, finché almeno una
monade esprimerà la propria potenza come una luce scagliata nel buio, allora
persiste l’eventualità che si faccia corpo contundente e che cominci un nuovo viaggio,
in cui il piacere corrisponda al desiderio, e non ai suoi fantasmi.
Fabio Agostini.
[Fonte: Almanacco del Ramo d’Oro n° 9, Pornologia, Trieste 2008]
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