Fabio Agostini su Verso l’annchilirsi del disegno



Intorno a Verso l’annchilirsi del disegno… *


La poesia di Massimo Dagnino non è certo una poesia della dispersione, ma piuttosto della dissolvenza (con una dissolvenza incrociata, forse prodotta dal sogno, si apre il suo libro) e dell’asincro (con una tensione irrisolta tra voce e volto il libro si chiude): duplice condizione preliminare alla dispersione definitiva. Trattenere quest’ultima, sul filo del suo realizzarsi annichilente, è forse una delle vocazioni segrete della poesia che quindi, alla luce di questa ispirazione, si confronta col dominio della tecnica e con al sua potenza disgregatrice.
Verso l’annichilirsi del disegno…è una deriva, forse ineluttabile, ma a suo modo contrastata; nulla a che vedere con uno stato delle cose o con una tendenza deliberata; una deriva in cui resta e resiste il corpo, il corpo come resto. O come esigenza.
In una famosa a Milena, Kafka riflette sulla tecnologia come caratterizzata da un duplice lignaggio: quello dei mezzi di trasporto e quello dei mezzi di comunicazione. I primi, tagliando lo spazio, trasportano corpi: così facendo modulano le immagini in successioni di piani sequenza o fissandole in istantanee discontinue. I mezzi di comunicazione, da parte loro, evocano fantasmi, annullando la corporeità e costituendo così un vero e proprio lignaggio diabolico (alla lettera, di sdoppiamento e calunnia; dia-ballo, disunisco e quindi calunnio). Il cinema trova così nella prima serie tecnologica la propria collocazione: senza avere alcunché da spartire con l’ideologia comunicativa, è un mezzo di trasporto, come un nuovo treno o, volendo, un’auto lanciata in autostrada con i fari accesi. Immagine della monade che esprime il mondo intero del suo punto di vista, pur senza avere né porte né finestre. Il regno diabolico e fantasmatico della tecnologia comunicativa appartiene piuttosto alla televisione e, ancor di più, alla desomatizzazione prodotta dalle web-cam.
È perciò uno sguardo d’ispirazione cinematografica a trattenere la poesia di Massimo Dagnino in prossimità dei corpi, sul filo dell’esigenza di averne uno e di salvarlo dalla voragine ipermediatica in cui ancora si cerca di “abbinare una voce al volto”. Donde il riferimento a David Lynch, a un cinema fatto della lotta tra corpi e fantasmi: corpi dilaniati, violentati, erotizzati, uccisi, mutilati, storpi, deformi; corpi di un amore che è violenza sadica, di una masturbazione che è preludio al suicidio, di un eros che è soprattutto thanatos. Ma questa violenza è incisa sul corpo dalla produzione fantasmatica che, se trattiene il corpo, è solo per accanirsi ancora di più su di esso: tramite uno sdoppiamento che lo riproduce in quanto fantasma, in quanto corpo divenuto ormai diabolico, separato da se stesso e della propria voce (trasmessa in playback e fuori sincro in un teatro da incubo), oppure tramite la proliferazione d’immagini pornografiche, esposizione infinitamente ripetuta del gesto vitale in un ambito di morte: una donna posseduta da tergo proiettata sulla parete di una stanza in cui si consuma un omicidio.
Forse, infine, saranno i fantasmi ad averla vinta, calunniando definitivamente le nostre vite, vuoi con la riduzione del desiderio a gioco mercificato della seduzione permanente, vuoi con il mercato della paura e della coattivamente ripetuta ossessione emergenziale, vuoi con ogni altro genere di diavoleria. Ma finché resterà almeno un corpo, finché almeno una monade esprimerà la propria potenza come una luce scagliata nel buio, allora persiste l’eventualità che si faccia corpo contundente e che cominci un nuovo viaggio, in cui il piacere corrisponda al desiderio, e non ai suoi fantasmi. 

Fabio Agostini.

[Fonte: Almanacco del Ramo d’Oro n° 9, Pornologia, Trieste 2008]



*            Massimo Dagnino, Verso l’annichilirsi del disegno…, LietoColle, Faloppio (CO), 2004

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