[ Estratto dal saggio: Giovanna Frene, Prospezioni sui contemporaneissimi, in
“L’almanacco del ramo d’oro”, nn. 5-6, Anno II febbraio 2005, Trieste.]
Massimo Dagnino. La scrittura di Dagnino, esordiente con Verso l’annichilirsi del disegno…, si
presenta spoglia di espedienti retorici ma dalla sintassi “petrosa” (evidenti
gli influssi di un certo Pound criptico, paratattico e intuitivo), tanto quanto
si presenta ricchissima di richiami architettonici, pittorici e
cinematografici, spesso occultati, costruendo quella che l’autore stesso, nella
poesia incipitaria, definisce una “sinossi” di stili architettonici, e,
aggiungiamo noi, di immagini e situazioni. È l’architettura, intesa
principalmente come forma mentis, a
dirigere lo sguardo sulle cose, prima di tutto sull’ambiente urbano, del
soggetto: “Apertura a iride: / la città
esplorata dall’alto emerge dal fuori / Fuoco s’intravedono strutture, destini /
Ritmi // Immaginarli – vederli – accelerati / Iperbolici, asfittici ma
attraenti fino a farli diventare / Un’interferenza: non c’è più un dentro / Un
fuori… // L’insieme di costruzioni al suo primo apparire / Sollecita la
memoria, poi la necessità di situare / Il già visto per sottrazione / Si
configura Berlino, Tokyo: Los Angeles”.
Colpisce di fatto che l’immagine delle città conosciute sia invece non
presente, ma mnemonica, continuamente rivisitata dalla mente (che la possiede
sia come immagine esterna che come “spaccato
assonometrico”), e che dunque l’occhio che guarda la singola città reale
davanti a sé proietti al suo esterno tutto questo bagaglio iconico. Anzi, è il
corpo stesso a funzionare da assorbente per l’“assenza di gerarchie” propria della realtà: è questo il suo modo
per conoscere, entrando “in collisione /
Con limiti corporei” non suoi. Questo provoca sul singolo non tanto la
perdita della sua consistenza (anzi, si fa ad un certo punto un chiaro
riferimento alla condizione della monade – una monade moderna, chiusa nel suo
fuori, paragonata da Deleuze ad una macchina che sfreccia ad alta velocità sull’autostrada
notturna), ma l’assunzione di un’ottica di “statistiche
posticce” e la percezione continua di un “al di là” forse intuibile, ma non
alla portata della vista (“Tutto, si
risolve in un passaggio ad alto spostamento / Eppure… lì c’è qualcosa”).
D’altro canto, se c’è qualcosa che non si può vedere, tutto quello che invece
si può vedere sembra essere mediato dalla sua rappresentazione (che sia
architettonica o pittorica o grafica), come se la forma più vera d’esistenza,
prima che di conoscenza, fosse la rappresentazione, e dunque l’immagine, e non
la realtà. L’acquisizione poetica più originale di questo libro risiede dunque,
a nostro avviso, proprio nella capacità dell’autore di mensurare e intrecciare
i piani della scrittura (rappresentazione simbolica), del disegno
(rappresentazione grafica) e della realtà (sia in quanto cosa in sé, sia in
quanto referente, sia in quanto immagine).
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