Luciano Neri su Verso l’annichilirsi del disegno


Massimo Dagnino, Verso l’annichilirsi del disegno…, Faloppio, Lietocolle 2004, pag. 42.
L’esordio poetico di Massimo Dagnino (classe 1969, genovese), più che un organismo definito, è l’inizio di un organismo lungo il tracciato del viaggio di un libro-orizzontale, un libro-possibile. Dove viaggio e corpo (spostamento + soggetto/oggetto) procedono alla stessa velocità estensiva, essendo la stessa cosa: dalla prima fonte sinottica (pagina d’apertura e pre-testuale) de “Il sogno dell’architetto” (p. 13), fino a un’ipotetica frontiera, prossimità dopo prossimità. E non prima di aver trovato la posizione più conveniente (più mimetica), la modalità attraverso cui rompere la ‘precedente alleanza’ tra l’essere e il suo linguaggio (p.14).
Il riferimento alla monade deleuziana dell’auto lanciata in una ‘freeway’ (“Lost Highway-Mullholland Drive”, p. 18) – fondo oscuro da cui si trae ogni cosa –  non è casuale, ma è l’indice di un percorso percettivo attraverso il quale il viaggiatore (l’esploratore) prende contatto con la sua superficie di ricettività – le città sovrapposte, i corpi, la natura – , il punto di vista di un soggetto dal ‘di fuori’; e secondo la ‘comprensione intima’, interna, per cui il mondo non è governato da nessuna particolare necessità, ma da uno slancio vitale, di slancio in slancio (c’è un’attitudine ‘politica’ nella scrittura di Dagnino che non va affatto trascurata).
Un occhio-corpo tecnico quello dello scrivente (formule tipo: “Lunghissima la dissolvenza/ Incrociata con gli alberi…”/ - p. 14 -; “Apertura a iride:”/ - p.15 -; “La visione grandangolare si sfuoca”/ - p.25 -), prospettico di ciò che è soggetto al punto di vista e modulare, capace di sorvolare il paesaggio del reale e cogliere le vibrazioni dei margini delle figure, in un orizzonte senza gerarchie (“Lascio che il mio corpo si impressioni/ S’imbeva dell’assenza di gerarchie/ Per poi fluire in destini stupefacenti”), anti-verticale.
Pensiero nomade di una forma in perenne formazione lungo il luogo del costituirsi di un’anima quindi, come direbbe Deleuze/Leibniz, e non viaggio di de-identificazione o di identificazione dell’io nell’altro: l’io, anzi, ha una sua posizione latente, speculare (“Più in là sulla strada/ Bagnata, lucida, in parte speculare io/ Immobile nell’immagine latente”), inequivocabile, improvvisa, in piano con gli altri episodi, tra una variazione e l’altra.
Qui entra in scena Tremblay, il ‘web-master’ (p. 32 e p. 34), pre-individualità della folla, singolo punto degli illimitati temporali della rete, quando il gioco virtuale dei possibili si accende e si accentua verso una fine che va a sospendersi, ad annichilirsi, ma solo momentaneamente.

Luciano Neri

[Fonte: La Mosca di Milano n° 12, “Lo straniero”, maggio 2005]

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