Mary B. Tolusso su Presente Continuo


Presente continuo di Massimo Dagnino, Stampa, 2007.


Si affida a una costante «esposizione scenica della parola». Si potrebbe definire anche così «Presente continuo» di Massimo Dagnino, uscito per Stampa nella collana diretta da Maurizio Cucchi. Nulla a che fare con inclinazioni teatrali o performatiche. Quelle di Dagnino sono parole in «sequenza» e «dissolvenza», ideate al fine di una sorta di poema cinematografico e che del cinema si avvalgono per architettare un originale constructo letterario. Sulla valenza dello «sfondo», sulla possibilità di creare paesaggi reali e incorporei l’autore aveva già dato prova in «Verso l’annichilirsi del disegno», edito da Lietocolle e qui riproposto nell’ultima sezione del testo. L’inclinazione alla «veduta», a planimetrie architettoniche – reali e ideali – votate anche a un intento dissolutivo (o di molteplicità degli sguardi) si colloca anche nel suggerimento di alcuni titoli di pellicole che per sensibilità – tradotti in scrittura – sono vicini all’autore: Wim Wenders, Sofia Coppola, Alfred Hitchcok, cineasti in grado di coniugare realtà e visionarietà. Ma il video abita un «presente continuo» di mondi immaginati – non per questo fittizi – al di là dei «rivestimenti» filmici. Così gli «angeli/ di Otto Wagner…» narrano una perpendicolarità trascendente che si liquefà nelle vertigini delle telecamere. Se in «verso l’annichilirsi del disegno» Dagnino indicava un movimento di moto a luogo, si è giunti ora in una vera e propria comunità monadologica dove ogni soggettività è superata, dove è più facile il «moltiplicarsi dei punti di fuga» e paesaggio e senso sono strutturati – e destrutturati – dall’ansia. L’incerto confine tra vero e immaginario –tema caro a un altro genovese: Caproni – si innesta in nomi di vie e opere architettoniche, ma anche in treni merci e lungomari, sempre velati da un sipario sottile, in qualche modo distanziati e talvolta riportati alla concretezza da immagini paradossalmente «corporee» adottate in chiusura. Una sorta di fenomenologia spaziale a cui vengono sottratti avverbi di modo, di luogo e di tempo, eppure sorprendentemente in grado di sostenere figure dialettiche, prima che architettoniche e spaziali. «Poeta di particolarissime ossessioni», lo definisce Maurizio Cucchi in introduzione, a cui aggiunge la sua abilità di disegnatore che «porta sulla pagina l’esattezza tenace e il perfezionismo che ne caratterizzano il tratto». Massimo Dagnino insomma è in grado di inventarsi un linguaggio del tutto inedito, a cui va riconosciuta paternità, quella di coniugare linguaggio cinematografico e scrittura poetica. La compostezza formale, seppur modernissima, pare riferirsi ad autori liricamente sperimentali come Penna e Rosselli, e tra i contemporanei più incline alle mappature visionarie di Milo De Angelis e Gregorio Scalise.

Mary B. Tolusso


[Fonte: La Mosca di Milano n° 18, maggio 2008]

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