Massimo Dagnino su Carta annonaria (Lorenzo Caschetta)





Lorenzo Caschetta, Carta annonaria, LietoColle (Faloppio, Como 2005).


Di recente pubblicazione l’Opera Prima (n° quattro della omonima collana diretta da Maurizio Cucchi) di Lorenzo Caschetta nato il 4 gennaio 1975,  vincitore del premio Dario Bellezza (2001)  sezione inediti e, con questo libro, del premio Umberto Saba-Trieste Scritture di Frontiera (2005, sez.o.p.).
Il titolo – Carta annonaria  contiene già in sé il filo conduttore del libro: “il bisogno”, con il suo “pulsare  dalle labbra quanto basta” ma anche con “Quanto la carta non comprende”.
La carta annonaria o “tessera del pane”, ricordiamolo, era un documento personale, uno strumento utilizzato dallo stato, in  determinati contesti storici, per il razionamento  dei generi di prima necessità: un mezzo per gestire la carestia,  strettamente connesso a  una situazione di emergenza.  Emergenza che si scopre essere  continua, dappertutto: fra bank, soaps, pub, cars, wine, toys, jewels, sport, nello sviluppo verticale della città sgargiante, totale con “la gru smaniosa di futuro…”. È diventata la regola e Carta annonaria ne è metafora esistenziale. Il senso di allarme è espressione di uno scenario desertificato in cui (volendo esagerare)  ci si aggirerà “senza più necessità primarie tanto meno indotte / ma in grado di filtrare in sostanza il sogno”.
Nel “quanto basta” è  ravvisabile  un  rimando alla vita sufficiente di Marsilio da Padova, che nel Defensor pacis (1324) parla sulla convenienza del “vivere e il ben vivere” e sul modo di raggiungerla.
La terra in Carta annonaria  è presente come  sostrato, è materia reattiva, affettiva , mediata dai versi e dalle prose  di Scotellaro che in un frammento del 1950 osservava:“sono finite le rotte degli aratri nelle terre”. Agricoltura e architettura ne mutano solo la configurazione.
Una terra dunque, la Lucania, a cui è già stato restituito un volto/voce (lontana da essere mero “revival folkloristico” o un mondo cristallizzato) nonché messa  in costellazione con la modernità : la si può vedere “cacciando lo sguardo attraverso i binari” …”stazioni illuminate in corsa fuori”…ma che, d’altro canto, tramite l’azione del ricordare possediamo come “villaggio vivente della memoria” (E. De Martino).
Attraverso la “città indotta” (l’immagine di copertina realizzata da Caschetta stesso) ci si inoltra nel Buio di Lucania, nella terra d’origine di Lorenzo – modenese di adozione –  ma anche di Rocco Scotellaro, poeta  da lui scrupolosamente studiato  fino ad acquisirlo come proprio referente culturale:  “le nostre curve ombre / una nube ci trascina lontano. … un cane annusa / tra il marcio delle foglie, disinvolto… E là, nell’ombra delle nubi sperduto, / giace in frantumi un paesetto lucano. …” . “ Il buio è questo lupo immenso / che annusa chino…Fra il Volture e il Pollino loricato” dove la sua preda è una preda luminosa “siano bagliori dagli abitati / o fari d’auto lampi sbriciolati…oltre l’ora del cane”.
Caschetta mutua da Scotellaro “certe asprezze” – sottolinea  Cucchi nella prefazione –  che si traducono in immagini forti , talvolta capaci di suscitare disgusto nel lettore: “voglio essere gettato sulla strada / come la piccola medusa di uno sputo”. Ed è  ne Il parassita, da cui sono tratti i versi appena citati, che si nomina la casa. Casa che è già prossima a svuotarsi di senso: non avrà neanche più un traslato e , come scriveva Gregorio Scalise ne La perfezione delle formule, “Le case sono metafore più sciocche / delle pietre”.
Nel libro entrano in scena personaggi dati.  Per esempio  nella poesia che dà il titolo all’intera raccolta ecco apparire, direttamente dalla Novella di Pirandello Ciàula scopre la luna,  Cacciagallina: “il soprastante”, “…le braccia puntate sui fianchi”. In Pirandello, rivoltella alla mano, così intimava sbraitando   ai picconieri: « giù tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all’alba, o faccio fuoco!».  “Giù” che ci rimanda al Germinale di Zola , al  “tutto andò a picco” in quel “pozzo” che “inghiottiva gli uomini a bocconi di venti e di trenta…”.
Cacciagallina è immagine del potere molare, si sdoppia in ciò che è il suo “sfogo” - Zi’ Scarda -  che a sua volta impone la sua prepotenza al suo caruso Ciàula (“presenza illune”, ma ancora per poco) .
Cacciagallina nella poesia di Caschetta è invece  immagine di un potere piramidale, come lo è Golia dagli occhi fondissimi, inarrivabili  che “sono periscopi, collimatori / ottiche di puntamento, / dettagli nel blindato del viso”: quello  del despota, che è sempre frontale. Viso che Caschetta predilige a volto ( “…visi incazzati”, “Torna intatta al tuo viso”, “come oasi di luce passano pensieri / brillanti nel cuore e sul viso” e ancora “Sfilano figure mortalmente calme / a viso scoperto…”).
 I  greci con la stessa parola - prosopon - indicavano  sia il viso, sia la maschera (dell’attore), il suo significato è ciò che sta davanti  agli occhi, lo sguardo verso: vedere ed essere visto. L’attore vede attraverso la sua maschera (attraverso la fissità) , e solo in questo modo può vedere.
Viso tradotto con persona mantiene l’ambivalenza semantica, ma la persona in quanto sinonimo del volto ha implicazioni con la sfera della moralità: a partire dall’ antropologia cristiana nel volto si segna lo stigma della somiglianza con il Creatore che fa della nuda faccia l’evento morale. Tenendo presente la radice indoeuropea di “uno”, da cui provengono in latino le due forme similis e simul, Agamben parlerà di simultas   riferendosi al volto – “l’essere irreparabilmente esposto dell’uomo e, insieme, il suo restare nascosto proprio in quest’apertura” - : “cogliere la verità del volto significa afferrare non la somiglianza , ma la simultaneità dei visi”.
Ma ritorniamo a Ciàula, e in particolare  alla luna. Quest’ultima quasi a sé stante, placida; scoperta da Ciàula che in un misto di sorpresa e conforto  si mette a piangere , lui pauroso della “sterminata vacuità” che è “la notte nera, vana” tanto che si sentiva più a suo agio nella cavità della terra … sulle file lunghissime che attendono la propria razione  “si leva lana di coniglio / al posto della luna” : «la Ditta Spagnoli di Perugia produttrice di lana di coniglio Angora ha fatto pubblicare sui giornali una reclame nella quale è detto che la “lana di coniglio è la  lana degli italiani”». Sarcasmo che non piacque per niente, infatti la direttiva Minculpop così conclude: «Provvedere d’urgenza perché tale reclame non sia assolutamente  più pubblicata dai giornali»  Era il 9 luglio del ’43…
Nell’Opera Prima di Lorenzo Caschetta   il bisogno, la terra, il potere si intrecciano alla “pazienza degli affetti” e “lacuna del cuore”, diverse le poesie con dedica,  in una scrittura che tende a volte all’accumulo (A giudizio puntuale) e a farsi ispida, sottraendosi a ritmi cadenzati, ridondanti :  acuminate sono le spire del moderno, però “chi non gli piace la testa vuota…”. Ecco impresagito lo spalancarsi  della vacuità , che non è una qualità ma sussiste all’esistenza. “La vacuità, male intesa,” – dice Nāgārjuna – “manda in rovina l’uomo di corte vedute…”.


(* La poesia Golia è stata pubblicata ne Lo Specchio de La Stampa n° 491 del 7 -11-’05)


Massimo Dagnino


[Fonte: Almanacco del Ramo d’Oro n° 8, “I luoghi in cui siamo già stati”, Trieste 2006]



















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