Massimo Dagnino su La muffa del creato (Francesca Moccia)



Francesca Moccia, La muffa del creato, LietoColle, (Faloppio, CO) 2005.

“Ho solo poche ore nelle mie vene e in questo mondo”. Le muffe – Myxomycetes – si diffondono strisciando e si nutrono di residui (“residui corrosi”) di materiale organico. È difficile vedere il corpo vegetativo di una muffa, simile a una gelatina, detto plasmodio poiché rimane nascosto nel terriccio sotto tronchi o foglie o in zone umide e oscure…: “Tutto è in rovina”, anche il nulla. Se il niente nel nichilismo è l’ultima stremata figura del fondamento, qui anche il nulla è in rovina: non c’è fondamento. L’essere, la totalità di ciò che è, è infondato. Il problema è appunto quello di un ulteriore conferimento di senso: “Il mio scopo è rendermi salva”. Ma qui si mostra quello che Santagostini chiamerebbe “la resistenza che il mondo offre a ogni conferimento di senso” (ma più che “offre” verrebbe da dire “oppone”): “Estranea appaio, voltata dalla vita in un’infelicità / che lacera i sassi”.
La muffa del creato (LietoColle, Como, 2005) è l’Opera Prima di Francesca Moccia, nata a Ponte (BN) nel 1971  è già presente in due antologie:  I poeti di vent’anni (Stampa, Brunello 2000) curata da Mario Santagostini e  Nuovissima poesia italiana (Mondadori, Milano 2004) a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.
A una prima lettura si ha quasi l’impressione di essere sottoposti a un “effetto random” (i versi sembrano  montati in modo casuale), stereotipi e immagini efficaci entrano in collisione fra loro   in un mondo di ombre labirintiche  dove proliferano  oggetti bizzarri –“ordigni giganti” – come il “grammofono” di Bion, che spia (“uno sguardo sonoro”) o che ascolta: inversione di funzioni  percepita immediatamente come  persecutoria: si è proiettati  in  una dimensione asfittica, minacciosa e minacciata. Gli oggetti  sono dotati di vita propria, assimilati talvolta al regno vegetale, alla ciclicità della natura: “La lampada sfiorisce adagio”. Ancora  si legge : “Gelavano i rami, il treno bloccò il giorno”; qui la macchina, risultato della tecnica agente  dell’uomo massa, sembra essere  frutto della natura stessa: si dà come il “sempre fu” della natura, interferendo direttamente sulle fasi del giorno.
La folla compare a tratti nel libro della giovane autrice  connessa, per esempio,  alla discesa da un treno. Ma qui “il suono del treno è dappertutto” e “Si scompare tra voci e abbracci, / tra fumo e nebbia” . In questi versi la singolarità si disperde nel man:  “Si cala”, “Si scende” ,  “Si scompare” nell’anonimia e si potrebbe pensare che il centro è dappertutto e da nessuna parte. In questo continuo straniamento i limiti corporei si disfano e talvolta la voce si sdoppia da femminile a maschile (aspetto già riscontrabile  in alcune poesie che precedono la raccolta):  “Sorrido al mio corpo che diviene invisibile tremando”, “Ascolto il corpo, sogna di bere ridotto / a pianta, rallenta i battiti…”. Quello che l’autrice ci presenta è un corpo ridotto a pezzi: “le labbra”, le ginocchia”, “la mano”  agiscono autonomamente. In questa frantumazione, che non riguarda solo il corpo ma l’esperienza del mondo,  si nasce, per converso, già congiunti. “Sul fondo fra noi congiunti nasciamo”. Come gli studi di Simondon hanno mostrato l’ individuazione non è dalla nascita, è nel rapporto sociale che ci si individua; nell’infanzia si è più specie che individui (“congiunti”) ma lei sembra mancare questa individuazione/differenziazione: nella socialità l’individualità si perde. “Il grido pubblico è l’epoca, il cittadino la mia ombra”.
Nel libro si moltiplicano personaggi che sono emanazioni della febbrile fantasia dell’autrice. “L’indulgente amico”, “l’uomo vestito di verde”, labili “figure che non si fanno notare”, “un cane che lecca la faccia…”: animali walseriani, figure kafkiane che potrebbero aggiungersi alla schiera di “aiutanti” di cui, come dice Agamben nel suo recente libro Profanazioni, “noi non sappiamo chi siano, magari sono degli inviati del nemico” e Francesca : “Col mio nemico entro nel futuro”.
Un dolore pietrificante, che paralizza, attraversa la scrittura della Moccia (“Inutilmente un grido si riposa”), ricorrente è il freddo, “il freddo intenso” anticipato  in una poesia apparsa nell’antologia mondadoriana : “Comincio ad avvertire il freddo, la /mente abbraccia i topi” e qui  “Il gelo riempì il collo”, “i brividi ci ammalano”, “Ho freddo”, “Sembra gelato il silenzio…” “il silenzio / lega il gelo” .
L’unica strategia possibile  per elidere il dolore è sigillare gli occhi: “Sigillo gli occhi e scompare il dolore” finché essi diverranno “marmi lucidi”: immagine di morte che conclude un testo che è l’ipotetica  ricapitolazione di una vita. “[…] il peggior dovere / lo sforzo del viso fessura insicura”, il volto, il luogo dell’esposizione, dell’apertura al mondo che noi stessi siamo, è nel contempo il luogo di una chiusura, di una claustrofobia, di uno stare in apnea.
Mi viene in mente la scena finale del film di Sofia Coppola “Il giardino delle vergini suicide” (The Virgin Suicides, USA 1999): i genitori, per il debutto della figlia in società, le organizzano una festa dall’insolito tema: l’asfissia. I partecipanti hanno il volto coperto da maschere antigas (l’aria che traversa il quartiere della middle class è corrotta, “l’aria si guasta”). Questa regista, della stessa generazione di Francesca, ha presentato il tema di un’adolescenza interrotta, che si sottrae al passaggio ad ulteriori tappe dello sviluppo psico-affettivo. Anche in Francesca “La gioventù non / è un buon alleato”. Ciò che rimane è un unico pensiero: rendermi salva, “una salvezza”, come dice Cucchi nella prefazione, “di cui neppure lei conosce esattamente il volto e le regole”.

Massimo Dagnino


[Fonte: Almanacco del Ramo d’oro n° 9, Pornologia, Trieste 2008.]

Nessun commento:

Posta un commento